Sport
Mermaiding. Shutterstock-Photo by Andrea Izzotti
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Mermaiding. Shutterstock-Photo by Andrea Izzotti
C’è chi, leggendo l’Odissea di Omero, dove la Maga Circe le descrive a Ulisse come le muse del mare, che attirano pericolosamente i naviganti con il loro canto ammaliante, ne ha subito l’indubitabile fascino; poi c’è chi, guardando La Sirenetta, declinazione disneyana del mito, ha sognato almeno una volta da bambina di trasformarsi in una di loro (e chi mente). Oggi, immergersi in acqua e nuotare grazie alla spinta di una scenografica e prodigiosa coda da sirena è possibile, grazie a una disciplina che coniuga una – intensissima – attività fisica con le note da fiaba restituite al pubblico dal repertorio letterario e cinematografico: il mermaiding.
Nato nel 2004 nelle Filippine come forma di spettacolo, votato all’intrattenimento, il mermaiding è diventato un vero e proprio sport, riconosciuto ufficialmente nel 2020. Dai Paesi asiatici è approdato negli Stati Uniti, quindi in Francia, e poi in Italia, dove hanno visto la luce corsi e perfino accademie dedicate. Qui si insegna a nuotare grazie all’utilizzo di una guaina (personalizzabile, va da sé, con colori vivaci e paillettes cangianti) che avvolge il corpo dal bacino in giù e termina con una monopinna flessibile e resistente in cui si inseriscono i piedi. Le gambe fungono così da propulsore, ma restano unite come fossero una vera e propria pinna caudale. Tutti i muscoli inferiori sono coinvolti nei movimenti, la cui potenza è decisiva per guadagnare velocità subacquea, mentre la schiena è al riparo da sforzi eccessivi. Nel mermaiding l’attrezzatura non è solo questione di immedesimazione nell’alter ego acquatico: in una sessione di un’ora si bruciano più di 800 calorie (chi sirena vuole apparire…) e la qualità dei tessuti della monopinna è la chiave per la fluidità e il dinamismo degli spostamenti.
Oltre ad attivare l’intera catena muscolare e scheletrica inferiore, da cui consegue la tonicità delle gambe, dei dorsali e dell’area lombosacrale, il mermaiding influisce positivamente sulla mobilità complessiva del corpo, incluse caviglie, polsi e spalle, ma anche sulla coordinazione, data dalla necessità di sincronizzare i movimenti con il respiro. Il rapporto con l’acqua è il punto di partenza: le aspiranti Ariel moderne (o tritoni) dovranno immergersi con gli occhi aperti e rimanere in apnea, il che richiede una buona acquaticità, ma anche – ed è l’elemento imprescindibile – il desiderio di abbracciare l’archetipo della sirena, ossia la figura che per antonomasia si cala negli abissi, e quindi, traslando, nell’inconscio. Si tratta di un percorso che si articola di pari passo con l’apprendimento delle tecniche: la pratica, infatti, si svolge prima in superficie, poi, per vocazione intrinseca, diventa subacquea, fino a 3 o 4 metri di profondità (che aumentano nel caso dell’Ocean Mermaiding, dedicato agli esperti). A questo livello, nel silenzio assoluto, con il battito cardiaco come unico suono percepibile, si entra in connessione con se stessi, si riscoprono consapevolezza e autostima e, tramite il gioco – che resta la componente motrice –, la voglia, spesso accantonata, di sognare. Il risultato è un’armonia psicofisica, che resiste fuori dall’acqua. Insomma, sulla terraferma la magia non svanisce. Anche senza coda.