Serie TV

Le 20 Serie TV da vedere almeno una volta (prima parte)

Una lista di gioielli intramontabili che hanno fatto la storia del piccolo schermo
A cura di   Fabio Giusti

Flickr - Photo by MCC Current

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Flickr - Photo by MCC Current

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Scrivere un articolo sulle Serie TV che hanno fatto la storia non è affatto facile. Perché, inevitabilmente, la percezione di quello che vediamo finisce con l'avere a che fare non solo con la nostra sensibilità, ma anche con il periodo in cui abbiamo visto una determinata serie o magari letto un certo libro. Ne consegue che quello che a qualcuno potrà dire poco, significherà tantissimo per un altro; ed è per questo che ci scusiamo in partenza per chi non troverà, in questo elenco, proprio quel titolo con cui è cresciuto e che ha amato fin dal primo istante. Una selezione, però, bisognava pur farla, e noi che a KuriUland ci sforziamo di essere obiettivi, dal pozzo apparentemente senza fondo delle Serie Tv, siamo riusciti a selezionarne, non senza fatica, venti.

Sono quelle che, per un motivo o per l'altro, riteniamo più iconiche perché riescono tutt'ora a fare la differenza in un'industria che, nei decenni, è diventata sempre più affollata e competitiva. Al di là delle mille novità che invadono le piattaforme ogni settimana, siamo infatti tutti d'accordo sul fatto che i classici – almeno alcuni – non moriranno mai. Ed è per questo che siamo pronti a condividerli con voi, con la speranza che incontrino (anche) il vostro gusto. Ecco le prime dieci serie TV da vedere almeno una volta nella vita!

I Soprano (1999-2007) - NOW

Flickr - Photo by Ilona Gaynor

Il 10 gennaio del 1999 faceva il suo esordio in TV il prodotto che, assieme a Twin Peaks, ha cambiato per sempre il volto del piccolo schermo, spianando la strada a una delle rivoluzioni culturali più rilevanti del XXI secolo. I Soprano è una serie televisiva statunitense ideata e prodotta da David Chase in un arco di 6 stagioni, per un totale di ben 86 episodi. Considerato un indiscusso capolavoro (per il New York Times è “l’opera della cultura pop più importante dell’ultimo quarto di secolo”), I Soprano rappresenta un vero e proprio spartiacque culturale che, di fatto, dà inizio alla moderna serialità televisiva, alla quale conferisce per la prima volta una dignità autoriale fino ad allora prerogativa del solo cinema. Ma cosa ha reso I Soprano un punto di riferimento così imprescindibile per la televisione moderna? Innanzitutto la sua capacità nell’anticipare i tempi andando incontro a un pubblico che, a fine anni Novanta, era alla ricerca di storie più mature e realistiche. Chase, traendo ispirazione dal capolavoro di Scorsese Quei Bravi Ragazzi, mette al centro della scena non il classico stereotipo del mafioso italo-americano, ma un personaggio che, a prima vista, potrebbe apparire come un normalissimo uomo medio del New Jersey con problemi comuni. Attenzione, però, perché Tony Soprano è tutto fuorché un eroe. La grande novità era che, per la prima volta, lo spettatore si trovava nella scomoda posizione di tifare per un pericoloso criminale pluriomicida. Ecco come I Soprano, in un colpo solo, ha sdoganato definitivamente la figura dell’antieroe in TV.

The Wire (2002-2008) - NOW

Courtesy of HBO

Tra gli analisti è opinione comune che l'epoca d'oro della TV tocchi il suo apice sul finire degli anni zero, considerati la summa della qualità televisiva, oltre che vero e definitivo punto di consacrazione della serialità. Al centro di questo glorioso decennio troviamo un prodotto che, all'epoca, fu poco considerato, ma che invece oggi viene addirittura insegnato a scuola, nelle Università e nei master specializzati. Parliamo di The Wire di David Simon e George Pelecanos, considerata il massimo esempio di Serie TV drama; una serie capace di mescolare giornalismo, documentario e narrativa di genere per raccontare e analizzare la società contemporanea. The Wire rappresenta il classico esempio di opera d'arte rivalutata nel tempo, grazie, soprattutto, al fatto di essere riuscita a rappresentare la società con tale precisione chirurgica e lucidità da anticipare problematiche irrisolvibili e preoccupanti che, quasi 20 anni dopo, ritornano, magari sotto altre forme. Non è affatto un caso che, in tempi più recenti, molte serie (da Gomorra a Sons Of Anarchy) si siano ispirate, più o meno dichiaratamente, al capolavoro della HBO. Un affresco spietato, distaccato e pungente (e per questo molto oggettivo) della società americana, che si concludeva con un finale stupendo, di puro stampo gattopardesco, che pone fine a qualsiasi possibile forma di sogno americano. Il "Paese dei sogni e della speranza" cantato da Springsteen risulta essere, di fatto, un posto di emarginati, di miseria umana e materiale, di opportunisti, avidi e corrotti.

Lost (2004-2010) - Disney+

Flickr - Photo by B Rosen

48 sopravvissuti allo schianto di un volo da Sydney a Los Angeles si ritrovano su un'isola apparentemente deserta e si accampano in attesa di aiuti che, però, tardano ad arrivare. Presto si accorgono che l'isola ha in sé qualcosa di strano e che vi sono cose ed eventi apparentemente inspiegabili. Nel tentativo di fuggire dall'isola capiscono che, in passato, altre persone sono arrivate in quello stesso luogo e che, probabilmente, non se ne sono mai andate. Questo, in poche righe, l'incipit della serie che ha cambiato per sempre le regole della TV (anche in termini economici, se consideriamo che il pilot all'epoca fu il più costoso della storia del piccolo schermo). Il fatto che la serie di Damon Lindelof abbia attirato un tale numero di spettatori da costituire un enorme fenomeno mediatico ha diverse cause: ottimi personaggi, certo, e una resa impeccabile, ma soprattutto la costruzione di una trama avvincente e ben curata. Pur con i suoi difetti e (alcuni) punti morti, infatti, la storia di Lost è capace di tenere il suo pubblico completamente incollato allo schermo, grazie ad un mix spesso perfetto di mistero, emozioni, improvvise accelerazioni e pause. Che si parli di viaggi nel tempo, crisi personali o del rapporto tra scienza e fede, la storia dei sopravvissuti del volo Oceanic 815 riesce sempre a mantenere (oltre a un livello qualitativo più o meno costante) una coerenza di fondo, fino ad arrivare al suo controverso – sebbene straordinariamente fedele alle premesse – finale. Quella che rimane nello spettatore dopo aver concluso la visione della serie è, infatti, la sensazione di aver appena concluso un viaggio: non importa che la strada abbia cambiato direzione più volte, e neanche che ci siano stati degli incidenti di percorso, perché tutto ha contribuito a creare una delle esperienze più indimenticabili mai viste sul piccolo schermo.

Breaking Bad (2008-2013) - Netflix

Shutterstock - Photo by Gorodenkoff

Walter White è messo male. Debiti, un figlio disabile e un secondo figlio in arrivo. Gli ex-amici hanno fatto i miliardi e il cognato poliziotto lo sbeffeggia. E, come se non bastasse, arriva anche un cancro per il quale non può permettersi le cure. Essendo la padronanza della chimica la sua unica risorsa, si mette a sintetizzare metamfetamine con l'aiuto di un ex-studente. Scoprirà che lo spaccio di droghe sintetiche non è un pranzo di gala, ma anche di essere più portato del previsto per il mestiere. L'idea cardine di Breaking Bad nasce mentre il suo autore, Vince Gilligan, è disoccupato, quando non coinvolto in progetti di scarso successo. Al punto che un collega, a un certo punto, gli suggerisce di mollare i sogni di gloria e metter su un laboratorio di droga in un camper per sbarcare il lunario. Quella che, ovviamente, è una boutade tra amici folgora però il buon Vince, che mette l'idea nero su bianco in un soggetto per una serie. La formula di base è quella secondo la quale un “signor nessuno” si trasforma in Scarface. Gilligan costruisce così uno dei personaggi più complessi e meglio scritti della serialità televisiva, giocando in modo straordinariamente radicale con la morale e le emozioni, prendendo lo spettatore per mano, per poi respingerlo e richiamarlo ancora a sé. Un'ambiguità figlia della cinematografia americana degli anni Settanta, quando la cosiddetta New Hollywood fioriva e, nel giro di una manciata di anni, già si incamminava sul viale del tramonto. 

Mad Men (2007-2015) - Prime Video

Flickr - Photo by cwangdom

New York, un’agenzia pubblicitaria a Madison Avenue (da cui il nome della serie) e tutto – o quasi – quello che riguarda l’America degli anni Sessanta, tra politica, sociologia e filosofia. Mad Men non è solo una semplice serie, ma uno sguardo affascinante sul mondo della pubblicità e sulla vita delle persone che lavoravano in quel settore in un momento storico in cui il consumismo e il boom economico fecero sì che il pubblicitario fosse uno dei ruoli professionali più richiesti: l’uomo dei sogni. Il protagonista della serie è Don Draper (un Jon Hamm magnifico, enorme), direttore creativo talentuoso ed enigmatico di un’agenzia pubblicitaria chiamata Sterling Cooper. La serie di Matthew Weiner – già dietro a un altro grande capolavoro, I Soprano, di cui fu produttore – ruota intorno alla vita professionale e personale di Don, oltre che a quella dei colleghi e della sua famiglia, a partire dalla moglie Betty. Episodio dopo episodio, Mad Men esplora molti temi (incredibilmente) attuali, dall’identità personale all’ambizione, dalla moralità al cambiamento sociale passando per la famiglia, sempre attraverso personaggi complessi e ricchi di sfumature, che lottano per bilanciare le loro aspirazioni personali e professionali in un’America in continua evoluzione che corre senza freni in bilico tra la Coca-Cola e il Vietnam. Il Don Draper di Hamm è il fulcro di tutto, un personaggio stilosissimo (mai una cravatta fuori posto) che si ama e si odia senza vie di mezzo, carismatico, misterioso e in grado di illudere sia i propri clienti che se stesso. Un personaggio estremamente complesso, inespressivo, in continua lotta con il suo misterioso passato, presente e futuro, così come con la famiglia, i colleghi e le amanti. Don Draper – di fatto – è l’America.

Friends (1994-2004) - Netflix

Flickr - Photo by Geoffrey Chandler

Tutto inizia da un concept semplice che di più non si può: sei amici che si destreggiano nella quotidianità di New York a suon di gag, tra appartamenti, ristoranti, uffici e l’immancabile caffetteria. Il Central Perk è un rifugio vintage, dove un divano e una tazza di caffè diventano lo spunto di una narrazione votata all’intrattenimento. Ma Friends non è solo una cornice di bei faccini al servizio della comicità. La serie TV mostra infatti la crescita e la maturazione di un gruppo di amici, dalla spensieratezza dei venticinque anni all’avvento dei trenta. Tra rocambolesche avventure metropolitane, la consapevolezza emotiva cerca una sua stabilità con un lavoro e una famiglia. Ed è proprio qui che Friends trova la sua forza. Una forza storica che arriva fino a noi, al nostro modo di essere oggi e di approcciarci alla serialità televisiva: ha parlato a una generazione oscillante tra i venti e i trent’anni con un linguaggio semplice, pulito, essenziale eppure fortemente identificativo, in cui è semplice ritrovarsi. Così come è semplice ritrovarsi nelle prove affrontate nel tempo da Monica, Chandler, Ross, Rachel, Joey e Phoebe, nel loro vissuto e nei rispettivi punti d’arrivo, figli di percorsi lineari che universalizzano concetti che vanno ben oltre lo scorrere dei decenni, all’interno di una cornice precaria che si sublima oggi in un mondo ancora più difficile per chi, i trent’anni, li sta vivendo in questi anni. Nessun’altra serie TV c’era fin lì riuscita, e pochissime altre ci sono riuscite in seguito. Poche hanno ritrovato la freschezza di Friends, una leggerezza che non rinuncia mai a un’implicita profondità mai fine a se stessa e una capacità lucida di analisi generazionale, niente affatto scontata in una serie di area comedy.

Succession (2018-2023) - NOW

Succession è una delle serie per le quali non sembra esagerato spendere il termine "capolavoro". E, tra tutte, una delle più recenti delle quali si può dire, senza timore di apparire esagerati, che ha cambiato la televisione. E l’ha cambiata con forza, scuotendola, capovolgendola e ribadendo per l’ennesima volta una delle grandi banalità di quest’epoca; una banalità che, a quanto pare, ha sempre bisogno di essere rimarcata: se non c’è una scrittura degna di questo nome, difficilmente ci sarà un capolavoro. Sorta di Re Lear all'incontrario – laddove il tragico re shakespeariano decide di dividere il regno tra i suoi figli, qui il magnate delle comunicazioni Logan Roy preferisce dividere i suoi figli mentre continua a gestire il proprio impero – nel corso di quattro stagioni (e quasi quaranta episodi) di Succession abbiamo visto qualunque cosa. Lo ribadiamo ancora una volta: qualunque. Il marito che ha il posto che ha semplicemente perché è il marito, il cugino che arriva nella speranza di trovare fortuna e che, comunque, nonostante l’evidente incapacità, un lavoro lo trova. I figli che si azzannano, si abbracciano e poi si azzannano di nuovo. Mogli che vanno e mogli che tornano. Incontri in castelli, aerei privati presi come fossero taxi, matrimoni veri, matrimoni finti, accordi sotto banco, accordi alla luce del sole. E poi alcol, tanto alcol. E attacchi di panico anche. La miseria della vita comune, e la fatica di farsi ascoltare. E poi il padre, sempre il padre, che non la smette mai – mai, neppure per un momento; neppure quando non c’è più – di dare lezioni. Perché lui sa, perché ha visto; perché non ha mai avuto il piatto già servito e pronto: ha dovuto procacciarselo da solo, il cibo. A mani nude.

Watchmen (2019) - NOW

Watchmen, il fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons, è sì una storia di supereroi, ma anche un fumetto sull’America della Guerra fredda, sulla paura, sulla politica, sull’ipocrisia del liberismo occidentale, e sul giustizialismo. Damon Lindelof, il ragazzino che si innamorò del fumetto di Moore e di Gibbons appena adolescente, l’uomo destinato a diventare uno degli sceneggiatori più apprezzati del piccolo schermo con Lost e con Leftovers, ha rifiutato fino alla fine la proposta di creare una Serie TV di Watchmen, finché a chiederglielo non è stata la HBO. A quel punto Lindelof accetta, e il risultato non è né la trasposizione della graphic novel di Moore e Gibbons e neanche una specie di versione expanded del film del 2009 diretto da Zack Snyder. È una storia che si inserisce nell’universo di Watchmen sviluppandola come se fosse un sequel ideale, ambientato 39 anni dopo i fatti raccontati da Moore, accennati qui e là giusto per dare le giuste coordinate anche allo spettatore profano. Tutto per raccontare la contemporaneità di un’America che ha via via perso tutti i suoi punti di riferimento. Una contemporaneità in cui i Watchmen, vigilantes mascherati animati da una personalissima idea di giustizia, sono chiamati a offrire il proprio contributo a un ordine pubblico tutt’altro che stabile, con regole d’ingaggio tutte da verificare. Il Watchmen originario era un pretesto per raccontare la Guerra Fredda che volgeva al suo epilogo, quello della Serie Tv di HBO concentra invece il proprio sguardo sulla questione razziale, fuoco su cui numerosi Steve Bannon hanno soffiato in questi anni. Lindelof racconta i drammi interiori attraverso esperimenti narrativi arditi, dove i piani temporali (così come in Lost) si alternano e si sovrappongono con grande abilità, diventando una sorta di tempo del subconscio (come in The Leftovers) e, di conseguenza, trasformando un racconto di supereroi in una seduta dallo psicologo.

I segreti di Twin Peaks (1990-1991) - TIM Vision

Shutterstock - Photo by John T. Roberts

«Chi ha ucciso Laura Palmer?». L’8 aprile del 1990 la ABC trasmetteva il primo episodio de I Segreti di Twin Peaks, la Serie Tv ideata da David Lynch e Mark Frost – in Italia sarebbe arrivata un anno dopo, il 9 gennaio 1991 – e quella domanda divenne un’ossessione per migliaia di spettatori. Il mistero della liceale trovata morta il mattino del 24 febbraio 1989 avvolta in un telo di plastica dopo essere stata gettata nel fiume ha cambiato la storia della televisione influenzando tutto ciò che è arrivato dopo. Due stagioni – senza dimenticare il revival omonimo del 2017 – con cui David Lynch ha sperimentato fin dove nessuno prima di lui aveva osato, o forse più semplicemente, anche solo immaginato, spingersi. A prima vista un semplice small town mistery incentrato su una studentessa liceale (Laura Palmer) rinvenuta morta sulla spiaggia di un graziosa cittadina immersa nelle foreste, Twin Peaks si rivelava un mix inedito di giallo, thriller, soprannaturale e comicità nonsense in salsa soap con un bouquet di personaggi uno più strano e singolare dell’altro. La scoperta della vera identità dell’assassino all’epoca diventò una vera ossessione per il pubblico di tutto il mondo: ovunque ci si chiedeva chi avesse ucciso Laura Palmer. David Lynch e Mark Frost non nascosero mai agli spettatori la presenza di elementi paranormali e soprannaturali, come la Loggia nera. Quest’ultima si trova in un piano astrale alternativo a quello della cittadina, un luogo al confine tra la vita e la morte dove albergano oscure figure. La contrapposizione tra bene e male rappresenta infatti una delle tematiche principali della serie. E, inutile a dirsi, dell'intera filmografia di Lynch.

The Americans (2013-2018) - Disney +

The Americans parla di una coppia di spie russe che vivono a Washington durante gli anni Ottanta, periodo concomitante all’elezione a Presidente di Ronald Reagan e, soprattutto, alla Guerra fredda fra Stati Uniti e U.R.S.S. che sta giungendo alle fasi finali. La coppia in questione è rappresentata da Philip ed Elizabeth Jennings, interpretati rispettivamente Matthew Rhys e Keri Russell (i due, tra l’altro, fanno coppia fissa anche nella vita reale), e rappresentano appieno lo stereotipo della tipica famiglia americana. Benestanti, due automobili, due figli adolescenti, il prato perennemente verde che circonda la tipica e accogliente casa su due piani. Tutto nella norma, se non fosse per il fatto che, appunto, Philip ed Elizabeth sono delle spie sovietiche che forniscono puntualmente informazioni sulle azioni americane al KGB. Nell'arco delle sue sei stagioni, The Americans è migliorata come il vino, perché non ha scelto mai la via facile, ma ha proposto una narrazione complessa e contraddistinta da una pazienza degna delle migliori spie. Gli scossoni in questo show sono profondamente emotivi e non poggiano solo su colpi di scena esagerati, e questa coerenza viene mantenuta fino allo splendido finale; forse l'apice di tutto lo show.

 

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