Lifestyle
Shutterstock. Photo by Tero Vesalainen
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Shutterstock. Photo by Tero Vesalainen
Tutti pazzi – celebrità incluse – per il second hand, che offre nuova vita ai capi denominati anche “pre-loved” o “pre-owned”. Non si tratta più di una scelta puramente estetica, sebbene il vintage alletti per la sua originalità, o di portafogli (e attenzione che il risparmio c’è), ma di etica: l’economia circolare, promossa dal mercato dell’usato, va in direzione ostinata e contraria – cantava Fabrizio De André – alla bulimia progressiva del fast fashion contemporaneo, facendo un grande favore al pianeta. La filosofia del riciclo, infatti, si oppone ai processi lineari che considerano solo il momento della vendita, noncuranti dello smaltimento dei capi avanzati pronti a ingrossare le discariche a cielo aperto, promuovendo invece un utilizzo virtuoso delle risorse, in cui si minimizza lo spreco e si evitano rifiuti difficili – e costosi – da smaltire.
Oggi, complice la consapevolezza nei confronti dell’inquinamento ambientale, si moltiplicano i sostenitori della pratica green che vede allungarsi la vita di vestiti e accessori preesistenti, a svantaggio della produzione ex novo. In breve, si valorizza quello che c’è già, innescando così una serie di reazioni a catena, a partire dal decluttering, ossia l’eliminazione del superfluo, che, anziché finire al macero, viene immesso sul mercato di seconda mano. Una vera e propria tendenza che disincentiva l’acquisto impulsivo e spinge ad abbracciare un guardaroba più sostenibile, fondato sull’immortale principio del “less is more”. Insomma, la rivincita della qualità sulla quantità, che stimola anche l’estro e la creatività nella ricerca di uno stile personale al di fuori dei circuiti più battuti.
Liberamente ispirato al saccheggio dagli armadi di genitori e nonni (c’è chi l’ha fatto e chi mente), il fenomeno del secondo hand ha assunto negli ultimi tempi proporzioni tali da ridefinire l’ecosistema della moda. Basti pensare che, secondo uno studio condotto dal Boston Consulting Group (Bcg), insieme alla piattaforma di resale di lusso Vestiaire Collective, il mercato di seconda mano vale oltre 100 miliardi di dollari nel mondo. Quasi tutti i proprietari del settore, dai nomi più blasonati agli emergenti, stanno raddrizzando il tiro rispetto al consumismo sfrenato per entrare in sintonia con lo spirito del riciclo, attraverso l’apertura di una sezione dedicata al second hand nei loro store online.
Non fanno eccezione nemmeno i colossi, finiti più volte nel mirino degli ambientalisti, come Zara, che da poco ha introdotto in 14 Paesi europei “Zara Pre-Owned”, ma anche H&M, con il suo spazio “H&M Rewear”, oppure Shein, il gigante cinese che, dopo aver fatto parlare di sé (e non per i prezzi stracciati, ma per l’impatto allarmante dalla sua filiera produttiva) ha cercato di dotarsi di un’anima più verde con “Shein Exchange”.
C’è ancora strada da fare, se si considera che l’industria del fast fashion è nella lista nera per quanto riguarda le emissioni di CO2 (oltre che lo spreco di tessuti), ma le iniziative orientate al recupero sono passi avanti che mostrano come un’alternativa all’oblio programmato, di cui sono esempio molte delle tendenze lanciate dai marchi più “veloci” sul mercato, non solo sia possibile ma stia realmente guadagnando terreno; ne è prova anche la rinnovata attenzione ai materiali utilizzati e all’intero processo di produzione, smaltimento incluso.
E se i big della moda globale cercano di avere un approccio ibrido più inclusivo, esistono piattaforme che del “pre-loved” hanno fatto il loro cavallo di battaglia dal principio: nel 2009 ha visto la luce a Parigi la già citata Vestiaire Collective, incentrata sulla haute couture, nel 2011 è stato il turno di Depop, quindi di Vinted, nel 2021, che ha conquistato in fretta gli smartphone (e i cuori) degli italiani. Per non parlare dei negozi fisici, che fanno del second hand un orgoglioso tratto distintivo, mostrando come un oggetto possa avere infiniti proprietari e sdoganando così i vecchi pregiudizi di chi credeva che con l’usato si finisse per essere démodé.
Ma, com’è noto, la moda è ciclica e, piuttosto che offrire a un abito una sola (breve) vita, o addirittura nessuna, per poi buttarlo via, vale la pena dargli un’altra occasione: con un pizzico di fiducia, non si sa mai che diventino centomila.