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Shutterstock - Photo by Frank11
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"A chi tocca nun se ‘ngrugna", "Ndo cojo cojo", "Morto ‘n papa se ne fa n’artro". Di certo vi sarà capitato, almeno una volta, di parlare con un romano e rimanere confusi dall’uso di qualche frase non immediatamente intellegibile. Ecco, se è così non c’è davvero nulla di cui preoccuparsi. È un’esperienza piuttosto comune e, del resto, il dialetto romanesco, pur essendo sostanzialmente una variante linguistica dell’italiano (motivo per cui molti non lo considerano nemmeno un vero e proprio dialetto) ha delle espressioni davvero curiose, potenzialmente incomprensibili per chi non ha mai abitato a Roma. Ci sono infatti dei modi di dire che conoscono più o meno tutti, e altri che sono noti solo agli abitanti di una regione, o addirittura, di una città. Abbiamo quindi pensato di raccogliere 10 modi di dire tipicamente romani che vi aiuteranno a cavarvela anche nelle situazioni più complicate: in bocca al lupo!
Questa espressione viene utilizzata quando la ricerca di qualcosa o di qualcuno risulta più complicata del previsto, per non dire impossibile. "É come cercà Maria pe' Roma" è dunque un po' come dire "Cercare un ago in un pagliaio". In molti ritengono che l’espressione sia nata per la difficoltà di trovare una persona dal nome tanto comune tra le mille strade di Roma. Eppure sembra che le origini di questo modo di dire romanesco abbiano un legame con la religione cristiana e con la Madonna. A Roma, infatti, poco distante da Campo de' Fiori, si trova un passaggio piccolo, da pochi conosciuto, chiamato il Passetto del Biscione.
Si tratta di un passaggio con oltre 2000 secoli di storia. In questo luogo, in età romana, si trovata il Teatro di Pompeo e, nel Medioevo, vennero realizzate le chiese di Santa Barbara dei Librai e San Salvatore in Arco. Proprio in quest’ultima chiesa, che oggi è nota come Santa Maria in Grottapinta, si trovava un’icona raffigurante la Madonna della Divina Provvidenza. L’espressione "Cercà Maria pe' Roma" si riferirebbe, quindi, proprio alla difficoltà di trovare a Roma quell’icona di Maria.
Quando non c’è proprio niente da fare, non si intravedono alternative o proprio non ce n’è per nessuno, spesso i romani usano dire che "Nun c'è trippa pe gatti". Detto immediato, verace quanto basta e tuttora molto usato nella Capitale. L’espressione sembra essere nata agli inizi del '900 (precisamente tra il 1907 e il 1913) quando il sindaco di Roma era Ernesto Nathan. Il primo cittadino di allora, divenne famoso in particolare per i tagli che fece al bilancio pubblico.
Controllando il piano finanziario della città, Nathan notò una spesa denominata "frattaglie per gatti". In pratica il Comune pagava il cibo alle colonie feline di Roma, questo perché i gatti erano preziosi per Roma. Davano infatti la caccia ai topi evitando che questi ultimi rosicchiassero i documenti degli archivi. L’allora sindaco di Roma, venuto a conoscenza di tale spesa, decise di annullarla, annunciando che, da allora, i gatti avrebbero dovuto procurarsi da soli il cibo e pare scrisse sul bilancio proprio "Non c’è trippa per gatti”, nero su bianco.
Sicuramente tra le espressioni ancora molto usate dai romani oggi, questo modo di dire ha origini lontane e, strano a dirsi, nulla a che vedere con i capelli. Il capello a cui il detto fa riferimento, infatti, ha una correlazione diretta con il vino, pensate un po'. "Guardare il capello" equivale a guardare il dettaglio, soffermarsi su una piccolezza e i romani sono soliti dirlo a chi fa il puntiglioso, a chi si impunta su una cosa piccola, trascurabile. "Stai a guardà er capello" è un modo di dire che nasce nelle osterie, tra il 1500 e il 1600. I romani in quegli anni erano soliti riunirsi in osteria a bere vino. L’oste lo serviva in recipienti di terracotta o di metallo che non davano modo di vedere ai commensali quanto vino, effettivamente, fosse stato versato.
Da qui, spesso, nascevano accuse che finivano abbastanza puntualmente a botte. Così, nel 1588, Papa Sisto V, per mettere fine ai tafferugli, sostituì i recipienti di terracotta e metallo con delle caraffe di vetro, trasparenti, che potessero mostrare la quantità di vino versato. Non solo: i recipienti in vetro furono classificati in base alla loro misura e così nacquero il Tubo (1 litro), la Foglietta (1/2 litro), il Quartino (1/4 litro), il Chirichetto (1/5 litro) e il Sospiro (1/10 litro). Sì, ma cosa c’entra il capello? La quantità di vino da rispettare in ogni recipiente, era indicata da una riga incisa nel vetro e questa riga, in gergo, veniva chiamata appunto "er capello".
"Ho fatto er giro de Peppe". Quante volte è capitato di dirlo o di sentirlo dire a Roma? Ma perché, quando si fa un giro assurdo per raggiungere la meta, quando si sbaglia strada o, ancora, quando si cerca parcheggio per ore, i romani sono soliti dire così? Innanzitutto è bene svelare il detto completo, che dice: "Er giro de Peppe intorno alla rotonda, appresso alla Reale". Ma chi è Peppe? E cos'è questo giro tanto famoso al punto da trasformarsi in un modo di dire ancora così tanto utilizzato nel parlare romano? "Peppe" non è un nome qualunque, ma si riferisce a Giuseppe Garibaldi. La rotonda è quella del Pantheon – piazza della Rotonda appunto –, mentre la "Reale" è invece il corteo funebre per la morte di Vittorio Emanuele II di Savoia.
In sostanza accadde che, il 9 gennaio del 1878, Vittorio Emanuele II di Savoia morì e fu organizzato un corteo funebre che fece due giri intorno alla piazza del Pantheon per salutare il morto (ricordiamo che le sue esequie tutt'oggi si trovano all'interno del Pantheon). In quell'occasione Giuseppe Garibaldi, non a conoscenza di quanto stesse accadendo, si unì al corteo, facendo anche lui due giri della piazza, quando, invece, sarebbe potuto restare insieme alle altre autorità davanti all'entrata. Due giri che non passarono inosservati, al punto da passare alla storia e da dar vita al "Giro de Peppe”.
Si pensa che il termine "cucco" derivi da "cuco", un fischietto annoverabile tra i primi giocattoli sonori dei tempi antichi. Secondo un'altra versione, invece, il termine sarebbe una deformazione onomatopeica di Abacuc, uno dei 12 profeti d’Israele. Quest’ultimo, infatti, viene sempre rappresentato come un uomo anziano, pensieroso e dalla lunga barba. Secondo l’Accademia della Crusca, la parola cucco potrebbe derivare invece da "cuculo", i cui nomi cuculo, cucco e cucù, hanno origine dal verso ripetitivo che il volatile in oggetto emette (cu-cu).
La Crusca scrive che: "Tutti i dizionari, antichi e contemporanei, registrano le espressioni menzionate alla voce cucco ‘cuculo’. Ad avvalorare l’ipotesi che il cucco dell’espressione in questione sia il ‘cuculo’ contribuisce la presenza del sintagma l’era del cucù (accanto a ‘l’era del cucco’) per indicare un tempo molto lontano". Sempre secondo la Crusca, "cucco" potrebbe derivare anche da "bacucco (che ha un legame con ‘Abacuc’): "Il parallelismo dell’espressione vecchio bacucco e vecchio come il cucco o vecchio cucco si spiegherebbe in questo caso, dalla caduta della sillaba ba-".
Quando in città si abbassano le temperature, immancabilmente, nella Capitale, fa la sua comparsa la fantomatica “Gianna”, una corrente gelida tanto misteriosa da non sapere nemmeno se vada scritta con la maiuscola o con la minuscola. Ma perché si dice così? Alcuni racconti popolari parlano di una certa Gianna che aveva l’abitudine di aprire le finestre della propria casa per poter far scorrere il vento. Anche in inverno teneva sempre le finestre aperte e di conseguenza anche in casa soffiava la tramontana, che veniva scherzosamente chiamata dai romani come “Senti che Gianna”. Altre storie raccontano invece di una signora di Trastevere, che si metteva a correre per le strade di Roma per portare in casa il pane appena sfornato dal fornaio. Correva così veloce che al suo passaggio si alzava un forte vento, che i romani chiamavano la “Gianna”.
Secondo altre fonti, nella diffusione della parola “gianna” c’è lo zampino degli spagnoli, che per secoli hanno avuto a Roma una propria guarnigione. Il termine deriverebbe perciò dalla “gineta”, la lancia corta portata dagli ufficiali della milizia del re di Spagna. Il nome, successivamente, passò a indicare il frustino indossato dai soldati spagnoli. Il suono con cui quel frustino fendeva l’aria quando veniva agitato, ricordava il fischio del vento. Da qui al passare a indicare un vento freddo, il passo sarebbe stato breve. Qualunque sia la sua reale etimologia, la gianna, riuscirà comunque, anche quest’anno, a irrigidire il clima degli inverni romani, facendo “batte le brocchette” ai suoi abitanti intirizziti, che cercheranno riparo per non “puzzasse dar freddo”.
Un modo di dire che, in qualche modo, potrebbe sembrare legato al cibo, alla caccia, o addirittura alla magia. Dopotutto se non interpretassimo il senso del messaggio, potremmo ritrovarci a pensare a piccioni che, per qualche strano motivo, si trasformano in delle quaglie. Dopotutto la traduzione letterale dell’espressione sarebbe “dai e dai anche i piccioni si trasformano in quaglie” ovvero qualcosa che, se non interpretato, potrebbe non significare nulla.
In realtà però questa simpatica frase nasconde un significato molto più profondo di quanto possa apparire. Qualcosa che va ben oltre la caccia, la magia e perfino il buon cibo. Il “daje e daje pure li piccioni se fanno quaje” conserva infatti una vera lezione di vita. É quel proverbio attraverso il quale i romani vogliono dire: "Prova e riprova anche i piccioni possono diventare quaglie", ossia un chiaro invito a non arrendersi mai, a provare e riprovare perché prima o poi si riuscirà nell'impresa, anche in quella che appare impossibile.
Se hai avuto la fortuna di camminare tra le strade di Roma, avrai sicuramente sentito il detto "Me pari la lupa del Campidojo". Questa espressione viene generalmente usata per descrivere una persona irrequieta, che non riesce a stare ferma. E, come ogni buon detto, anche questo ha dietro la sua storia. Dopo la breccia di Porta Pia, il Campidoglio ospitò una lupa vivente, tenuta in una gabbia per la curiosità dei cittadini. Questa lupa era nota per il suo incessante andirivieni all'interno della gabbia; un movimento così continuo da diventare un punto di riferimento per i romani. In sintesi, "Me pari la lupa del Campidojo" non è solo una semplice frase, ma un connubio di storia, cultura e tradizione che rende ancora più affascinante la già intrigante narrazione di Roma.
La traduzione letterale è "a chi capita, non se la prenda, non reagisca". Un po' una versione romanesca di "Oggi a me, domani a te". Il termine "grugno", infatti, indica il muso dell'animale, mentre l'espressione "ingrugnarsi" (o ingrugnirsi) in italiano vuol dire "tenere il grugno, cioè assumere nel volto un'espressione corrucciata". In altre parole, l'espressione "A chi tocca nun se 'ngrugna" vuol dire, se ti è capitata questa cosa, non prendertela, guarda avanti. Un modo di dire che si usa in tante situazioni del tempo presente, ma la cui origine, in realtà, sembra essere molto antica. Il modo di dire potrebbe infatti essere nato da un antico gioco romano di carte: la "Passatella".
In pratica chi perdeva a carte non poteva bere per un giro e a chi spettava questa punizione si diceva, appunto, "A chi tocca non se 'ngrugna". Se in un gioco questa espressione può essere presa con filosofia, è vero anche che, nella vita di tutti i giorni, è bene prestare attenzione prima di dire una frase del genere a chi ha ricevuto un danno, una pena. Potrebbe non reagire bene. Se, invece, l'espressione viene detta a noi stessi da altri, meglio prenderla con quel pizzico di umorismo che è alla base di questo modo di dire romanesco.