Food & Drink
Shutterstock - Photo by Wider View
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Intanto, una doverosa premessa. Quello che segue non è un articolo per stomaci deboli. Perché parleremo di un cibo che, sebbene completo da un punto di vista squisitamente alimentare, è anche l'indiscusso argomento principe della divisività a tavola. Si tratta di quello che comunemente viene chiamato il quinto quarto, quando proprio non si vuole sottolineare il fatto che, in buona sostanza, si stia parlando di interiora di animale; frattaglie insomma. Cibo povero par excellence, le frattaglie hanno sempre avuto una connotazione negativa. Contrapposte per definizione ai tagli nobili, per molto tempo, sono state infatti relegate ai margini della cucina, associate irrimediabilmente all’appartenenza a classi meno agiate.
Questi tagli di carne, a lungo trascurati, sono però tornati di gran moda negli ultimi anni. Tanti chef hanno inserito le frattaglie nei loro menu e, in alcuni casi, sono nati anche ristoranti che hanno fatto del quinto quarto il loro nome o, comunque, il concept alla base della loro cucina. Il quinto quarto – chiamato così perché costituisce tutto ciò che non rientra nei quattro tagli principali dell’animale – è riuscito così a mettere d’accordo sia la cucina tradizionale delle osterie che la ristorazione più alta: le prime usano le frattaglie per riproporre piatti antichi, alla base della cultura culinaria italiana, mentre i ristoranti ne valorizzano il gusto anche attraverso accostamenti più insoliti e nuovi.
Ciò che stupisce di più delle frattaglie è come, di fatto, queste riescano a legare tra loro a filo doppio, dal punto di vista gastronomico, tutte le regioni della Penisola; certo con le dovute differenze legate alle rispettive varianti locali. Nulla di meglio, dunque, che partire per un breve tour, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, alla ricerca del quinto quarto perduto.
In genere siamo abituati ad associare le mammelle delle mucche esclusivamente alla produzione di latte, ma se vi dicessimo che si possono anche mangiare? Il teteun è un salume valdostano antichissimo, protetto dal MASAF e prodotto, per l'appunto, con le mammelle bovine salmistrate. L'uso alimentare di questa singolare parte del corpo è molto antico e descritto perfino nel De re coquinaria di Marco Gavio Apicio, uno dei libri di cucina più importanti di tutti i tempi.
Il teteun si ottiene esclusivamente da razze bovine autoctone valdostane, in particolare la pezzata rossa. Le mammelle vengono incise in diversi punti e poi pressate, così da eliminare i residui di latte; dopo essere state tagliate a fette, vengono poi disposte a strati dentro appositi contenitori e condite con sale, salvia, rosmarino, alloro, bacche di ginepro e altre spezie a discrezione del produttore. Questo procedimento è molto simile a quello fatto per la carne salada, ma con il teteun ci sono poi dei passaggi successivi che lo rendono uno dei migliori prodotti della cucina valdostana.
La finanziera è un piatto tipico della cucina piemontese nato durante il Medioevo. La prima ricetta conosciuta risale al 1450 ed è stata proposta dal Maestro Martino da Como, il più importante cuoco europeo del XV secolo, oltre che autore del Libro de Arte Coquinaria. Nata nel Monferrato e, in seguito, soggetta a diversi rimaneggiamenti, la finanziera rimane comunque un piatto povero, nato dal riutilizzo delle parti scartate durante la trasformazione dei galletti in capponi – creste comprese – e di alcuni scarti di macellazione dei bovini.
Una ricetta successiva della finanziera ha per titolo Salsa e ragout à la Financière ed è attribuita a Giovanni Vialardi (datata 1800). L'etimologia è incerta, tuttavia pare che ad un certo punto della storia la finanziera abbia abbandonato le tavole dei contadini e sia diventato un piatto elitario, prendendo quindi il nome dalla giacca da cerimonia, detta appunto "finanziera", indossata a Torino nell'800 dai rappresentanti della finanza piemontese.
In Liguria la testa in cassetta, nota anche come Soppressata, è, insieme al salame e alla mostardella, uno dei prodotti di salumeria regionale più antichi. L’impasto, composto dalle parti di testa del maiale – per lo più guancia e orecchie – e da varie parti di frattaglie fra le quali anche guanciale, lingua e cotenne. La carne viene poi fatta bollire con aromi (sale, pepe, alloro, limone) che variano da zona a zona. Una volta cotta si disossa, si taglia con il coltello e si mette l’impasto in appositi stampi in legno a forma di bauletto: da qui il nome di testa in cassetta. Si lascia così per alcuni giorni e poi si consuma tagliata a fette.
Che "del maiale non si butta via niente" lo hanno capito bene anche i lombardi che, fra i piatti tipici della tradizione, annoverano una specialità della cultura contadina nata proprio per recuperare gli scarti della lavorazione del maiale: la Cassoeula, stufato caldo a base di verze e carne che un tempo celebrava il momento della macellazione del maiale che ogni famiglia aveva allevato. In un'epoca in cui nulla andava buttato, ci si arrangiava con ciò che offriva la campagna, usando anche le parti meno nobili dell’animale: costine, piedi, coda, cotenne e – ça va sans dire – frattaglie.
Diverse le teorie circa l’origine del termine: c’è chi ritiene che derivi da cassoeu, parola dialettale con cui si indica il mestolo, mentre molti sostengono che si riferisca invece alla casseruola dentro la quale viene cotta la carne. Secondo l’ipotesi più accreditata, però, il nome deriverebbe da cazzuola, lo strumento usato dai muratori per spalmare la malta tra i mattoni e che fa riferimento a quello usato per mescolare il preparato durante la cottura.
A prescindere dal nome, la Cassoeula nasce a inizio Novecento durante la dominazione spagnola di Milano: la leggenda narra di un soldato spagnolo innamorato di una cuoca di una famiglia nobile che, un giorno, si ritrovò senza ingredienti in dispensa. Il soldato le suggerì allora di utilizzare gli scarti del maiale e le poche verdure dell’orto, dando vita così ad un piatto povero che però piacque molto agli ospiti. Al punto che la ragazza decise di capitolare di fronte al corteggiamento del giovane.
Nella Val di Non, in passato, ogni famiglia usava acquistare un maialino presso la Fiera dei Santi e allevarlo per circa 12 mesi alimentandolo con patate, crusca, scarti di ortaggi e fieno. Con la carne di suino, poi, si preparava uno dei prodotti più rappresentativi della Val di Non, zona storicamente a forte vocazione norcina; si usavano tutte le parti del suino, compresa la gola e, anche se raramente, il cuore e i polmoni.
Tutt'oggi la mortandela è ancora prodotta artigianalmente, sebbene sia sempre più difficile recuperare la materia prima migliore, ovvero maiali pesanti allevati con alimenti naturali. In Friuli, con lo stesso procedimento, viene realizzata la marcundela. La mortandela è un prodotto sostanzialmente fresco. Al naso non deve prevalere l’odore di carne e le spezie non devono essere troppo invadenti. Si può consumare cruda o cotta in abbinamento a polenta, patate o verdure di campo lesse, come il tarassaco.
Chiunque abiti in Veneto non può, almeno una volta, non aver mai assaggiato il fegato alla veneziana. Quel buonissimo connubio di carne di fegato e cipolle bianche, tenute insieme da una cottura veloce. In questo piatto, il forte gusto ferroso dell’organo di scontra con il dolce sapore delle cipolle bianche di Chioggia e va a creare un piatto prelibato, simbolo indiscusso del territorio veneto.
Gli altri ingredienti del fegato alla veneziana sono burro, olio, prezzemolo e, in alcuni casi, aceto. La presenza di quest'ultimo, nella ricetta tradizionale, è dovuta a una necessità di carattere pratico, prima che gustativo: era infatti un trucco per occultare l’odore acre del fegato quando non c’erano i frigoriferi.
Piatto povero per eccellenza, perché a bassissimo contenuto di grassi ma ad alto valore proteico, il lampredotto è una tipica ricetta fiorentina e lo si può trovare in tutti i chioschi presenti in città, comunemente detti “lampredottai”. È realizzato con il quarto e ultimo stomaco del manzo, l’abomaso, il quale è composto da una parte più grassa, detta spannocchia, e una più magra, chiamata invece gala.
I nomi sono un po' ostici, è vero, ma non c’è da preoccuparsi perché basterà specificare di volere la “trippa per fare il lampredotto” e qualsiasi macelleria della città capirà perfettamente di cosa state parlando. La ricetta originale del lampredotto fiorentino prevede che la carne venga lessata in un brodo estremamente saporito e poi servita su di un panino (le tipiche stimme, simili alle rosette), oppure come piatto singolo. Ciò che però non deve mai mancare sono i condimenti: senza salsa verde e salsa piccante non si può parlare di lampredotto.
Il rapporto tra cucina laziale e frattaglie merita proprio un discorso a parte. L'identità gastronomica della Capitale è infatti quasi integralmente strutturata attorno al quinto quarto. Tra Roma e i tagli poco nobili c’è un rapporto profondo e identitario. È l’ingrediente povero che rendeva felice il popolo. Fegato, cuore, polmone, diaframma, animella, cervello e soprattutto lei, la mitica trippa: tutte parti che nel tempo hanno dato vita alle ricette della tradizione. Una cucina di “scarto” e riciclo che sottolineava ancora di più la sua essenza contadina e umile.
Dalla coda alla vaccinara, realizzata con coda di bue stufata e speziata, alla pajata, in cui la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte, pulito ed eviscerato ma non privato del latte, è l’ingrediente protagonista di piatti cult della tradizione capitolina, come i rigatoni. Senza dimenticare la coratella, termine ombrello che indica un complesso di interiora (fegato, polmone e cuore, poi esteso ad animelle, rene e milza) di diversi animali – in particolare agnello – e che viene preparata soprattutto in umido con i carciofi, o fritta.
Il nome di questa pietanza, ovvero "il piede e il muso", indica soltanto due dei tagli che si possono trovare dal cosiddetto carnacottaro, colui che tradizionalmente vendeva le frattaglie. Anzi, zendraglie: questo termine napoletano deriva dal francese les entrailles, ovvero le interiora, e veniva utilizzato per indicare gli scarti della carne che i nobili non ritenevano commestibili, oltre ad aver assunto nel tempo un significato dispregiativo nei confronti delle popolane, considerate rumorose e sgraziate.
Al giorno d'oggi 'o pere e 'o musso si può trovare nelle macellerie o presso venditori specializzati, spesso ambulanti a bordo della mitica ape car. Una volta giunti al cospetto del furgoncino o della bottega, è possibile scegliere, a seconda del proprio gusto, fra i diversi tagli disponibili, tutti rigorosamente di quinto quarto. A partire da quelli che gli danno nome, come il piede di maiale (a volte anche di vitello) e il muso di vitello. Poi la trippa, il cosiddetto centopelle (uno degli stomaci del vitello) e altri tagli particolari, come la lingua di maiale, la matrice di vitella e di maiale, o'mbruglitiello (l'intestino di vitello) e ‘a zizza (la mammella di mucca).
Gli gnummareddi sono un piatto nato nelle aree rurali, tipico di varie zone del Sud Italia, dal Molise alla Puglia, dall’Irpinia alla Lucania. Cos'hanno in comune queste campagne del nostro Paese? Semplice, che dappertutto, al tempo dei latifondi, mezzadri e signori feudali mangiavano le carni pregiate e ai contadini delle masserie rimanevano soltanto le frattaglie. Per questo era necessario fare di necessità virtù e rendere più appetitose possibile le interiora degli ovini, che spesso erano l’unico tipo di carne che si riusciva a mettere in tavola.
Non è dato sapere se gli gnummareddi siano nati in un luogo e poi si siano diffusi a macchia d’olio in tutto il territorio circostante o siano comparsi contemporaneamente in versioni autonome ma simili sulle tavole di paesi anche molto distanti fra loro. Qualunque sia la loro origine, diventarono presto una pietanza molto amata nelle masserie meridionali e abbinata ad altri prodotti della cultura contadina, come le cipolle, i peperoni e i formaggi di pecora e capra.
Spesso commettiamo l’errore di considerare la cucina siciliana in parte debitrice della cucina araba. Molti piatti siciliani, invece, hanno origini kasher. Tra questi c'è senza alcun dubbio il pani câ meusa, un panino con un ripieno speciale: un mix di frattaglie tra cui la milza, in dialetto palermitano: meusa, appunto. Il panino con la milza è un piatto povero che nasce circa 1100 anni fa, quando dei macellai di origine ebraica si stanziarono a Palermo. Questi, non potendo percepire denaro per il proprio lavoro a causa della loro fede religiosa, trattenevano come ricompensa le interiora del vitello: budella, polmone, milza e cuore.
Tra queste frattaglie non c’era il fegato che, avendo un valore economico maggiore, veniva venduto separatamente. I macellai ebrei dovevano trovare il modo di trasformare in denaro questa ricompensa, e finalmente un giorno ebbero un’idea che risultò geniale. Si accorsero che i cristiani erano soliti mangiare le interiora degli animali, accompagnandoli con formaggio o ricotta. Ispirati da questa usanza, idearono quindi un panino farcito con polmone, milza e “scannarozzato”,ossia pezzi di cartilagine della trachea del bue.