Food & Drink
Shutterstock - Photo by VisualArtDesign
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Parlando di ragù risulta assai difficile prescindere dall'eterna diatriba tra Napoli e Bologna su quale delle due città possa rivendicarne, a giusto titolo, le origini. Ed è bene sgombrare subito il campo, se non altro, almeno da un dubbio. Il termine ragù non nasce infatti in Italia, risultando altresì dalla storpiatura di "ragôut", parola francese che vuol dire "remettre en appetit" ovvero risvegliare l'appetito. Fin dall’epoca rinascimentale, il termine ragoût viene utilizzato in Francia per indicare tutte quelle ricette che prevedono il taglio in piccoli pezzi di carne, pesce o verdure che vengono poi stufati lentamente, in maniera non dissimile dalla preparazione di uno spezzatino o di un brasato. Tutt'altra cosa rispetto alla nostra concezione di ragù che prevede, sia nella versione napoletana che in quella alla bolognese, che la carne venga utilizzata come condimento per la pasta.
Se la matrice francese non ci risolve quindi il dilemma sulle origini del ragù per come lo intendiamo in Italia, la verità è che, però, inizialmente, anche qui da noi questo venne inteso come un piatto di sola carne stufata. Se ne trova traccia in un trattato del 1773 dal titolo Il cuoco galante. L'autore, Vincenzo Corrado, ne descrive diverse varianti, dal ragù di petto di vitello a quello di animelle, fino al ragù di gamberi o uova. Il piatto, in genere, prevedeva una prima rosolatura in burro, lardo o olio, poi una cottura in brodo o vino con ortaggi ed erbe aromatiche. Spesso, ma non è una regola universale, a fine cottura si aggiungeva del succo di limone o, più raramente, aceto, così da aumentare l’acidità del piatto. Il ragù era una preparazione molto versatile, utilizzata per insaporire altre vivande, oppure per formare un ripieno, ma non veniva ancora associato alla pasta.
Pasta e ragù si sposano solo alla fine del Settecento, in un altro libro di cucina, L'apicio moderno di Francesco Leonardi. Qui appare, per la prima volta, una sorta di progenitore del ragù alla napoletana in cui, dopo la lessatura, i maccheroni vengono conditi con parmigiano, pepe e sugo di vitello o manzo (ovvero il sugo ristretto ottenuto dalla stufatura di un grosso pezzo di carne), poi fatti riposare sopra la cenere calda e serviti. La cosa interessante è che, tra la prima e la seconda edizione del ricettario, Leonardi inserisce una nota importante per la storia della gastronomia: la possibilità di aggiungere il sugo di pomodoro all’intingolo di carne stufata. La definitiva conferma di questo modo di condire la pasta arriva qualche anno più tardi, nel ricettario La cucina casereccia, stampato a Napoli da un anonimo autore che si firma con le solo iniziali M.F. Questo si può considerate il prototipo più antico del ragù napoletano: i maccheroni lessati e cosparsi di formaggio grattugiato si condiscono "con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidoro".
Mentre il ragù alla napoletana va via via consolidandosi nella tradizione culinaria, quello alla bolognese non aveva ancora preso forma. Tuttavia, nel Cuciniere italiano moderno di metà Ottocento, compare una ricetta che potrebbe rappresentarne le origini: quella dei Maccheroni alla famigliare. Qui, il sugo di braciole o stufato viene arricchito con un trito di midollo e prosciutto, a cui si aggiunge del pomodoro. La vera novità sta nel consiglio di riutilizzare la carne avanzata, tritarla e mescolarla al condimento. Sebbene la carne resti il piatto principale, si inizia a sentire la necessità di arricchire adeguatamente la pastasciutta, che gradualmente acquista una maggiore importanza nell'economia del pasto.
Sarà Pellegrino Artusi, nel suo celebre La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, a descrivere i Maccheroni alla bolognese (l’autore evita ancora di parlare di ragù, probabilmente per l'ambiguità del termine), introducendo una sorta di “proto-ragù” fatto con pancetta di maiale e vitello, insaporiti con sedano, carota e cipolla e cotti lentamente con brodo di carne. Artusi suggerisce anche alcune varianti per arricchire il condimento: funghi secchi, tartufo, fegatini di pollo e panna, che, insieme al latte, avrà una presenza discontinua nel ragù fino a oggi. Si tratta di un ragù bianco, privo di pomodoro ma intenso e gustoso, in linea con la tradizione bolognese.
Dopo un periodo di transizione lungo quasi vent'anni, la versione definitiva si afferma intorno al primo decennio del Novecento, quando quasi tutti i cuochi scelgono di abbinare il ragù alle tagliatelle (suggerite già da Artusi) e di inserire stabilmente il pomodoro. Nel secondo dopoguerra, si aggiunge anche la carne di maiale fresca, come riportato nel famoso Il cucchiaio d’argento, consolidando una ricetta che è rimasta quasi immutata fino ai giorni nostri. Questa versione, tuttavia, differisce da quella ufficializzata nel 1982 presso la Camera di Commercio di Bologna dall’Accademia Italiana della Cucina. Ma, forse, proprio questa varietà è il fascino della cucina tradizionale, con le ricette che cambiano, anche in modo radicale, di casa in casa.