Arte & Cultura
Courtesy of Restauri Squatriti
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Courtesy of Restauri Squatriti
Forse non tutti sanno che a Roma, in pieno centro, esiste un luogo sospeso nel tempo dove i vecchi oggetti possono tornare a nuova vita. Non troppo distante da Piazza Navona, in via di Ripetta, c’è infatti una vetrina che mette in bella mostra una serie di teste di bambola, antiche statue di ceramica e vasi in porcellana. Si tratta del negozio Restauri Artistici Squatriti, conosciuto anche come Ospedale delle Bambole di Roma, un luogo che rimanda a tempi passati, mosso dalla nobile missione di ridare lustro a oggetti vecchi e rotti.
Restauri Artistici Squatriti è un chiaro invito a non fermarsi mai di fronte all’apparenza: tra teste di bambole e pezzi di porcellana sparsi qua e là, c’è l’amore di chi, invece che gettare, recupera. Qui si trovano bambole di qualsiasi epoca, in cartapesta, pannolenci, porcellana e celluloide, e complementi di arredo quali vasi di porcellana, ceramiche e soprammobili in gesso.
L'Ospedale delle Bambole è uno dei pochi negozi antichi ancora in vita a Roma ed è gestito da Federico Squatriti, un uomo dalla risata contagiosa e la battuta pronta, che ogni giorno dà nuova vita agli oggetti che sarebbero destinati al macero. Dalla gioia con cui racconta del suo lavoro, si percepisce la sua passione. Dall’esterno, mentre si passeggia per la via, si nota subito la vetrina contenente pezzi di vecchie porcellane, messe lì alla rinfusa, in attesa di essere aggiustate. Un’atmosfera spettrale e suggestiva che, in realtà, custodisce un’infinita dolcezza e una filosofia di fondo. Che tutto, ma proprio tutto, alla fine può essere riparato e avere una seconda possibilità.
Qual è la storia di Restauri Artistici Squatriti?
È una storia che parte da lontano. Appena terminata la guerra, non c’erano certezze sul futuro e trovare lavoro non era una cosa molto semplice. Mia nonna Concetta, che è sempre stata lungimirante e aveva una mentalità imprenditoriale, pensò di mandare i suoi due figli piccoli a imparare un mestiere e non farli stare per strada. C’era un signore presso Piazza del Popolo, vicino a dove si trova il nostro negozio, che riparava le cose: niente di speciale, ma era un lavoro che fruttava. Dopo la guerra, molta gente voleva riparare i piccoli danni delle case, soprattutto gli oggetti a cui era legata.
Mia nonna, quindi, li mandò lì a fare “i ragazzi di bottega”; nel 1953 decise poi di aprire un negozio: lei aveva tante conoscenze, i ragazzi erano ormai cresciuti, avevano fatto 6,7 anni in una bottega e avevano imparato a fare qualcosa; insomma, non poteva andare male. Non c’era la cura a ogni minimo dettaglio che ci mettiamo oggi, a volte si vedevano attaccatura, colore, stuccatura, ma era un’altra epoca storica e l’importante, per le persone, era che venissero riparati gli oggetti a cui erano legate. Il negozio aprì e andò alla grande, al punto che ci lavorarono negli anni, oltre a mia nonna, mio zio e mio padre, anche mia zia e mia madre Gelsomina, che ora ha 90 anni e non riesce più a lavorare. Più tardi, mi aggiunsi anche io.
Come è stato crescere tra queste mura? È nata così la tua passione per il restauro di opere antiche?
Io e la mia famiglia abitavamo nell’appartamento sopra al negozio, tutta la mia vita è sempre stata qui: andavo a scuola in questa zona e passavo tutti i pomeriggi al negozio. Da piccolo, stare qui, tutti i giorni, con entrambi i miei genitori era una cosa bellissima: è il sogno di ogni bambino. Ricordo che, dopo che abbiamo lasciato la casa qua sopra per trasferirci in un altro quartiere, la mattina venivamo io e mia sorella al negozio, in macchina, con i nostri genitori alle 7; la scuola apriva alle 8.30 e noi restavamo tutte le mattine a dormire in macchina: il negozio è sempre stato parte della mia quotidianità.
Pian piano iniziai a fare anche qualche piccola commissione. Federico mi vai a consegnare questa cosa? Federico pulisci i pennelli dal colore e le spatolette per le stuccature? Poi, l’apprendistato vero e proprio. Mentre lavoravano mi raccontavano di tante cose, non solo di lavoro. Mio padre, ad esempio, mi raccontava delle sue grandi passioni: l’opera lirica e le Harley Davidson, instillandomi passioni che ho tuttora. Erano pomeriggi di istruzione e di racconti di vita. Amo stare qui e ho scoperto che, oltre che essere un bel lavoro, mi riusciva bene! Come si fa a rinunciare a tutto ciò?
Siete diventati famosi come l’Ospedale della Bambole. I tempi, però, sono cambiati e di bambole in porcellana non ce ne sono più molte. Di cosa vi occupate principalmente oggi?
Abbiamo sempre riparato ceramiche e porcellane antiche, sin dagli inizi. Fu mia mamma, intorno alla metà degli anni ‘60, a proporre di iniziare a riparare le bambole, che d’altronde erano fatte anch’esse di porcellana. Bisogna considerare il periodo storico: negli anni ‘60 eravamo nel pieno del boom economico e le persone avevano iniziato a viaggiare in Francia, Inghilterra, Germania. Da noi i bambini erano abituati all’aperto, mentre nel nord Europa, essendoci climi più freddi, le bambole si utilizzavano così tanto da divenire una forma d’arte. Diventarono decorazioni d’arredo dai prezzi molto alti. L’arte del restauro, poi, è tipica del sud della Francia e dell’Italia, ma in Germania, ad esempio, non c’era nessuno che riparasse con cura gli oggetti rotti.
Si vendevano, perciò, molte bambole rotte, a prezzi più bassi, che venivano portate qui. Erano composte da una testa in porcellana, arti di legno, corpo di cartapesta e occhi di vetro, quindi c’era bisogno di un artigiano a tutto tondo, che sapesse lavorare più materiali per aggiustare un’unica bambola. Gli italiani in viaggio iniziarono ad acquistare bambole su bambole dal nord Europa, principalmente rotte, per poi portarle a riparare in Italia, anche nel nostro negozio, e rivenderle. Per vent’anni diventò una vera e propria moda e la compravendita era alle stelle. Non si era risvegliato un amore per le bambole, era semplicemente nata una nuova forma di guadagno. Non era affetto, ma valore economico. Come tutte le mode, però, pian piano svanì.
All’epoca, quindi, le bambole erano la vostra principale fonte di guadagno?
No, non lo sono mai state. Nei momenti più prolifici ne facevamo 300 all’anno, ma non era sufficiente per pagare l’affitto e le bollette. Per fare quello, abbiamo sempre dovuto occuparci di ceramiche, maioliche, porcellane, terrecotte, gessi di tutte le epoche. Le bambole avevano un piccolo spazio ma, essendo una moda, l’attenzione mediatica si concentrò solo su di esse – da qui, il nome Ospedale delle bambole: noi, in realtà, ci siamo sempre occupati di altro, principalmente. Passata la "bambola-mania", hanno continuato a portarle in pochi, solo coloro che erano legati emotivamente a quest’oggetto, magari perché era della propria nonna. Noi siamo tornati al classico lavoro di restauro, le bambole che ripariamo ogni anno si contano sulle dita di una mano. Le case italiane sono sempre state piene di porcellane e ceramiche decorative e quelle non passeranno mai di moda.
L’arte di riparare è qualcosa che abbiamo perso. Il consumismo ci ha abituati all’usa e getta. Invece, Restauri Artistici Squatriti è sempre qui. Cosa crede che spinga le persone a riparare gli oggetti?
È molto vero, ma dobbiamo anche tenere in considerazione che quelli che portano qua non sono oggetti di uso comune: è difficile sentimentalmente gettare via un oggetto a cui si è legati in qualche modo, come ad esempio una bambola della nonna. Pur di non buttarle via, alcuni venivano semplicemente a lasciarcele. Per un periodo c’era la vetrina del nostro negozio piena di bambole con teste rotte: quella vetrina era un’alternativa etica alla discarica. Erano ferme lì, come nel limbo dantesco: non venivano buttate, ma non venivano neanche riparate. Seppur rotte, con il tempo hanno acquisito un nuovo significato: attraverso la curiosità dei passanti, sono rinate. Anche Roman Polanski si è fermato a fotografarle.
Cos’è che ti rende più soddisfatto del tuo lavoro?
Gli occhi che si illuminano alle persone quando vengono a ritirare qualcosa che si era rotto ed è tornato in vita. È l’empatia che provo nei confronti dei clienti a mandarmi avanti: non penso ai soldi, ma a vedere il sorriso delle persone. Anche l’antiquario, che non ha un legame affettivo, quando vede un oggetto tornare a essere com’era prima che si rompesse, è felice. A prescindere dall’interesse, quando si vede un oggetto ricomposto alla perfezione, il sorriso viene dal profondo del cuore.
Tutti abbiamo delle cose che preferiamo fare nel nostro lavoro. Qual è la tua?
Può sembrare assurdo, ma non ho una preferenza per un oggetto o un materiale in particolare: la mia cosa preferita è svegliarmi la mattina e venire al negozio. Mi rende felice. L’ho sempre sentito dire da mia mamma, ma non ho mai pensato che potesse essere davvero così, e invece lo è. Mi sembra di stare al parco di divertimenti, con la mia musica e i miei strumenti: spatole, stucchi e pennelli.
Serve grande cura nel restituire quello che l’oggetto era in precedenza. Cosa pensi che contraddistingua l’artigiano dall’artista?
Sono un artigiano e penso che sia la cosa più bella del mondo! L’artista trasforma le sue idee in opere d’arte, crea le linee da seguire, in modo libero, mentre l’artigiano deve saper seguire quelle linee già tracciate dall’artista, pedissequamente. L’artigiano deve avere una cultura a 360 gradi e saper mettere mano su tutto, deve saper riprodurre qualcosa che è stato creato un giorno o mille anni fa e deve saperlo fare allo stesso identico modo.
Quale pensi che sia la caratteristica peculiare del laboratorio?
È un luogo di calma e tranquillità: le persone trovano qui un negozio aperto 70 anni fa, con le stesse caratteristiche dell’epoca e lo modo di fare che io ho ereditato dai miei, tranquillo, esplicativo. Cerco di spiegare tutto ai miei clienti, per renderli partecipi, senza contare i minuti, essendo il più esaustivo possibile. Questo a prescindere dal costo del lavoro: se è un lavoro da 20 o da 2000 euro per me non cambia, l’approccio è sempre lo stesso. Vengono spesso gli americani e rimangono estasiati: non sono abituati a vedere un negozio così fermo nel tempo e poter toccare con mano porcellane cinesi o maioliche di 300 anni è per loro straordinario.
Federico Squatriti, da qua a 20 anni, dove si vede? Sta ancora qui, seduto nel laboratorio di via di Ripetta?
Certo! Finché saprò riparare bene un oggetto e avrò la voglia e il fuoco di fare che mi caratterizzano, non mi muoverò da qua! Solo quando non ci saranno più, che sia fra 10, 20 o 30 anni, allora non avrà più senso.