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The Crown, o come i reali inglesi conquistano tutti

Tre ragioni per cui la serie riscuote successo oltre i confini britannici
A cura di   Barbara Balestrieri

Shutterstock - Photo by Art Media Worx

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Si è da poco conclusa, con una sesta stagione che porta con sé il sentimento – inevitabile – della fine di un’era, The Crown, la serie ideata da Peter Morgan. La parabola della corona britannica trova il suo naturale epilogo, infatti, con la scomparsa della Regina Elisabetta, attraverso una puntata che non ha bisogno di arrivare a settembre 2022 per rappresentare gli eventi, ma, fermandosi al Giubileo d’oro di vent’anni antecedente, sceglie la strada dell’allusione – come sempre sobria e garbata – per restituire l’emblematica uscita di scena di una delle personalità più rilevanti degli ultimi cento anni. Baluardo della monarchia tradizionale, sospesa tra divino e terreno, eppure, come la serie ci ha insegnato (o, meglio, svelato), non immune alle fragilità dell’uomo comune. Ed è anche su questo che The Crown ha fatto leva dal principio per esercitare un fascino impareggiabile nella narrazione dei fatti, in buona sostanza realmente accaduti, che spiega il successo in tutto il mondo: l’umanizzazione del simbolo. Partiamo da qui.

Il lato umano

In The Crown la sfera privata si intreccia a quella pubblica, regalando allo spettatore squarci inediti di storia, certo, ma soprattutto di vita di uomini e donne che l’hanno puntellata con la loro presenza. Se è dal racconto privato che la serie trae forza, è innegabile che la massima espressione si veda all’inizio, nella genesi del simbolo stesso: una regina poco più che ventenne che, nell’atto stesso dell’incoronazione, abdica a una giovinezza dorata per quel bene superiore che è chiamata a incarnare. E Peter Morgan è bravissimo a trarre l’essenza dello sconvolgimento che ne consegue e che si propaga come un’onda d’urto non solo per Elisabetta, che è colta nel severo processo di apprendimento, ma anche per tutti coloro che le ruotano intorno. Così, mentre la Regina impara a essere tale, Margaret vive il doppio tormento, amoroso ed esistenziale, dell’eterna seconda e Filippo contiene i suoi impulsi alla ricerca di un posto nel multiforme quadro reale che vada oltre quello di marito-ombra. Tutti, loro malgrado, capiscono, Elisabetta in testa, che “non fare niente è il lavoro più difficile”, come insegna schiettamente la Regina Mary, davanti agli eventi che scorrono senza sosta. Insomma, i personaggi vivono il paradosso per cui, pur rappresentando il potere, si sentono spesso impotenti. E questo li rende molto più vicini a noi. Con il passare delle stagioni il privato di Elisabetta si ridimensiona gradualmente, per lasciare spazio all’intimità degli altri membri della famiglia reale. Un processo che si compie in maniera quasi naturale con l’evoluzione del cast.

Il cast

Claire Foy è la regina esordiente ed è colei che, più delle due successive interpreti, si trova a dover portare sullo schermo la transizione di Elisabetta in Elisabetta II; con Olivia Colman, si ha l’impressione di vedere, pur con l’acquisita maturità, ancora l’emotività della donna sotto la corona; con Imelda Staunton, infine, l’identificazione con la monarca è sostanzialmente perfetta: davanti agli occhi dello spettatore compare d’un tratto l’Elisabetta che è abituato a riconoscere, imperscrutabile e mai scomposta. Una convergenza che, unita alla prossimità temporale dell’ultimo ciclo, inevitabilmente dissolve un po’ quell’aura ammaliante che si respira nel primo, tradendo un sapore talvolta quasi documentaristico, ma allo stesso tempo ha proprio nella tangibile verosimiglianza – complice anche un’altra performance, quella di Elizabeth Debicki nei panni di Diana – il suo punto di forza. In The Crown cambiano gli attori come cambiano i periodi storici, la società e il mondo. Niente, in breve, sarebbe stato possibile senza un cast sempre in grado di mutare, di intercettare perfino le spigolature dei personaggi, di parlare con lo sguardo stando in silenzio per via di una presenza scenica capace di sorreggere anche le puntate dove la materia narrativa risulta meno coinvolgente. L’elenco degli attori è lungo, ma è indubbio che ciascuno di loro, indipendentemente dal ruolo, abbia una caratteristica intrinseca: la credibilità assoluta.

Lo stile (e la Storia)

In effetti la credibilità, in senso ampio, è l’architrave su cui poggia l’intera serie. Ad alimentarla si pone una modalità di racconto capace di dare risalto e spessore anche ai dettagli in apparenza marginali, che guadagnano significato grazie all’impeccabile costruzione delle linee narrative. Ma anche della Storia, con la S maiuscola, perché – va ricordato – The Crown attraversa un cinquantennio di rivolgimenti sociopolitici, di bilanci e di diffidenze da parte dell’establishment nei confronti di una monarchia costretta di anno in anno ad affrontare crisi di popolarità sullo sfondo della Guerra Fredda, prima, e del mondo contemporaneo, poi.

Restituire allo spettatore un universo al tempo stesso storico, sentimentale (con il leitmotiv drammatico dei matrimoni infelici), politico e sociale non era facile senza perdere la bussola. The Crown ci riesce proponendo una terza via, equidistante tanto dai gettonati tabloid britannici – il cui gusto scandalistico è pure, a tratti, necessariamente evocato, in particolare nei frangenti che vedono protagonisti, senza sorprese, Diana e Carlo – quanto dalle registrazioni ufficiali della famiglia reale. Una terza via fatta di misura, che rende gli episodi molto compatti e riconoscibili in termini stilistici. Il risultato è un raffinato equilibrio d’insieme, mai scomposto, come la Regina che, dopo l’ultima scena, forse, in piccola parte sentiamo di aver conosciuto. O almeno così ci piace pensare.

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